Il discorso del Sindaco Gori in occasione della commemorazione del 18 marzo 2024
In occasione della Giornata nazionale per le vittime del Covid 19, il discorso del sindaco di Bergamo Giorgio Gori alla cerimonia di commemorazione al cimitero monumentale, la mattina di lunedì 18 marzo: dai camion carichi di bare per le strade di Bergamo all’Europa, passando per la questione della sanità pubblica.
“Buongiorno a tutti. Saluto il Commissario europeo Paolo Gentiloni e il prof. Franco Locatelli – Presidente del Consiglio Superiore di Sanità e Medaglia d’Oro della Città di Bergamo – e li ringrazio moltissimo per aver accolto il nostro invito. La vostra presenza attribuisce uno speciale valore a questa giornata.
Saluto il Prefetto, l’assessore regionale al Welfare, il Presidente della Provincia, il nostro Vescovo, tutte le autorità presenti e i tanti sindaci – colleghi e amici – che hanno voluto prendere parte a questa cerimonia. Credo non potranno fare a meno di ricordare un’altra cerimonia svolta in questo luogo – sulla piazza antistante il cimitero – alla presenza del Presidente Mattarella. Era il 28 giugno del 2020 e nell’ascoltare il Requiem di Donizetti ognuno di noi pensava alle persone care che aveva perso, a quelle che non era riuscito a mettere in salvo. Nel dare loro l’ultimo saluto sapevamo però che le nostre città, i nostri paesi, sarebbero tornati a vivere, che avremmo lavorato per tornare a renderli luoghi sicuri, accoglienti e operosi. E così è stato.
Oggi pomeriggio andrò a deporre una corona di fiori al Bosco della Memoria, che abbiamo voluto dedicare a tutti i nostri concittadini morti a causa della pandemia. E’ lì che a partire dal 2021 – rispettivamente alla presenza del Presidente Draghi, del Presidente della Camera Fico e dei ministri Crosetto e Schillaci, lo scorso anno – abbiamo onorato questa Giornata nazionale dedicata alle vittime del Covid.
Se quest’anno, invece, abbiamo scelto di tornare al Cimitero è perché ci è parso che quattro anni rappresentassero una distanza sufficiente per provare a racccontarne la storia. Non la storia in generale, che inizia alla fine dell’Ottocento, ma la storia recente, quella che si è dipanata lungo le settimane terribili della primavera 2020 in cui il virus nato in Cina piovve e deflagrò come una bomba in questo territorio, facendone l’epicentro della più grave epidemia degli ultimi cento anni. Perché quella storia, a me pare, dice più di tante parole cosa sia stato il Covid a Bergamo, e per questo non può essere dimenticata.
La prima cosa da richiamare è che in quelle settimane nere, le settimane della prima micidiale ondata dell’epidemia, il Cimitero di Bergamo rimase perlopiù chiuso. Ne decidemmo la chiusura il 7 marzo, per la ragione che troppe persone – signore anziane, perlopiù – non rinunciavano a salutare i propri cari, anche tutti i giorni, con evidenti rischi di contagio.
Decidemmo anche di utilizzare la camera mortuaria del cimitero per soccorrere quelle degli ospedali cittadini, che già scoppiavano.
Improvvisamente, dalla normalità caratterizzata da quattro-cinque decessi al giorno, eravamo schizzati a trenta morti al giorno, solo in città. In una giornata arrivammo a contare ottanta morti. Le tumulazioni avvenivano al ritmo di una ogni mezz’ora. Il forno crematorio del cimitero, seppure a pieno regime, non riusciva a smaltire le tante richieste; le bare presero ad accumularsi.
E’ difficile spiegare con quanta abnegazione abbiano lavorato in quel periodo i collaboratori dei nostri servizi cimiteriali. Valentina Nembrini, la responsabile, passò notti intere senza andare a dormire. I tredici guardiani, i cappellani, i dipendenti dell’ufficio anagrafe e della polizia locale: in quattro anni non ho avuto modo di rivolgere loro un pubblico ringraziamento. Consentitemi di farlo qui, insieme a voi.
Il 9 marzo chiedemmo all’ATS l’autorizzazione a poterle collocare nella chiesa del cimitero. Divenne così una camera mortuaria, nella quale collocammo i feretri in attesa dell’inumazione o della cremazione. Mettemmo le bare anche sull’altare, e sui banchi, ma il 15 marzo facemmo portare via anche i banchi, per avere più spazio.
I funerali erano ancora consentiti, ma vi potevano partecipare non più di cinque persone. Nella maggior parte dei casi non vi prendeva però parte nessuno, perché anche i familiari erano malati, oppure in quarantena. In alcuni casi registrammo dei video delle tumulazioni e li mandammo ai familiari che non avevano potuto salutare i loro cari.
La chiesa era ormai piena, ma le bare si moltiplicavano. Fu allora che pensammo di rivolgerci ai Sindaci di altre città del Nord e del centro Italia, chiedendo loro di poter utilizzare gli impianti di cremazione dei loro cimiteri. Da tutti ricevemmo immediata disponibilità. In quei giorni i bergamaschi erano cittadini di Novara, di Bologna, di Modena, di Gemona, di Varese, di Firenze e tante altre città.
C’era però il problema del trasporto, che costava anche 2€ al chilometro. Giacomo Angeloni, assessore ai servizi cimiteriali, pensò allora di rivolgersi al Comandante dei Carabinieri, mentre il Prefetto contattava l’esercito. Anche in questi casi le disponibilità furono tempestive e totali.
La partenza del primo convoglio fu fissata per il 18 marzo. Si optò per la sera, dopo l’inizio del coprifuoco, per non allarmare i cittadini; a quell’ora per le strade non ci sarebbe stato nessuno.
Il convoglio partì alle 21.00, percorse viale Pirovano, svoltò in via Borgo Palazzo per immettersi sulla circonvallazione e raggiungere l’autostrada. I camion, divisi in tre carovane, dirette rispettivamente a Bologna, a Modena e a Varese, trasportavano complessivamente 73 feretri.
Per strada non c’era in effetti nessuno, ma avevamo sottovalutato il rumore dei camion in movimento, che nella città completamente silenziosa dovette far pensare al rombo di un tuono. Fu così che il famoso steward di Ryanair, che riposava in via Borgo Palazzo, disturbato dal frastuono, uscì sul balcone e immortalò il corteo dei camion con le foto e il video che conoscete e che hanno poi fatto il giro del mondo.
Le ceneri di quei morti tornarono a Bergamo l’8 aprile. Quel giorno c’ero anch’io ad accoglierle, insieme a sua Eccellenza il Vescovo Francesco, il Comandante dei carabinieri e il nuovo Prefetto, alla sua prima uscita pubblica. Delle 363 urne, 149 rimasero a Bergamo. Vennero collocate al Famedio, su diverse file sovrapposte, perché il Vescovo potesse benedirle.
Poco dopo entrammo nella chiesa del cimitero. C’erano ancora quasi cento bare, poggiate sul pavimento, una accanto all’altra, con i nomi scritti a pennarello sul legno delle casse. Noi restammo sull’uscio mentre il vescovo prese a camminare tra le casse, sfiorandole con la mano. Le benediceva e al tempo stesso era come se le accarezzasse. Nessuno poté trattenere le lacrime.
Quell’immagine dunque porterò per sempre con me: le bare a terra nella chiesa del cimitero, una affiancata all’altra, e il vescovo che le sfiora con la mano.
Quella e un’altra immagine, che ne è l’esatto l’opposto. Sempre la chiesa del cimitero, ma questa volta completamente sgombra, ancora senza banchi, senza più neppure una cassa, vuota. Era il 18 aprile e per la prima volta pensammo che l’incubo stava forse per finire.
Da allora sembra passato un sacco di tempo. Nessuno ha dimenticato ovviamente – impossibile dimenticare – ma Bergamo ha cercato di mettersi il prima possibile alle spalle tutto quel dolore.
Se ha potuto farlo – anche questo va ricordato – è innanzitutto grazie ad una campagna vaccinale che è stata il frutto della migliore collaborazione tra le istituzioni: quelle europee – senza le quali non avremmo avuto i vaccini – quelle nazionali e quelle della nostra Regione.
Ha potuto farlo perché l’Europa per una volta ha fatto l’Europa, e attraverso SURE, il fondo comune che ha anticipato il Next Generation Eu, voluto dal Commissario italiano Paolo Gentiloni, ha evitato che il lockdown producesse una drammatica emorragia di posti di lavoro.
Poi Bergamo ci ha messo del suo, nel modo che più le è congegnale, nel modo che più di ogni altro esprime l’identità profonda di questa città e di questo territorio: LAVORANDO. Lavorando di più e meglio, per rimettere in piedi ciò che era in ginocchio, per ripartire, per tornare a costruire benessere e buona cura. I dati dello scorso trimestre – con la disoccupazione al 2,9%, e la nostra provincia quarta in Italia per valore delle esportazioni – ci dicono dove siamo, quattro anni dopo.
Una spinta io credo sia venuta anche dalla designazione a Capitale Italiana della Cultura. Quella scelta del Parlamento, sostenuta da tante altre città italiane, ci ha consentito infatti di tracciare – quando la fine della pandemia era ancora lontana – una linea d’orizzonte a cui appendere le nostre speranze e il nostro desiderio di rinascita. E’ stato importante avere un’ambizione ed essere chiamati a fare del nostro meglio per costruire qualcosa di importante e di bello, ed è stato oltremodo positivo farlo insieme a Brescia, nel segno dell’apertura e della solidarietà.
Tuttavia, io credo che si peccherebbe di omissione se si dicesse che tutto è andato bene, negli anni che hanno seguito la tragedia del Covid, e che tutti gli impegni sono stati onorati. Ve n’è almeno uno, importante, che abbiamo in parte disatteso e che merita d’essere rilanciato. Riguarda la sanità e in particolare la sanità pubblica.
Nell’uscire dalla pandemia ci dicemmo che non avremmo più consentito che accadesse – non tanto che un virus assassino iniziasse a circolare; perché sappiamo che questo potrebbe succedere di nuovo – ma di farsi trovare impreparati, senza una rete di cure territoriali in grado di intercettare e arginare il contagio, con pochi medici di medicina generale, con pochi posti di terapia intensiva negli ospedali, tanto da mettere a rischio la salute e la vita delle persone.
Ci riferivamo alla reazione di fronte ad un’eventuale nuova epidemia, ma più in generale – consapevoli che quelle mancanze erano il frutto di anni di progressivo indebolimento del servizio sanitario nazionale, che già in altri frangenti aveva mostrato le sue conseguenze – ci dicemmo che avremmo riportato la salute dei cittadini al centro dell’azione pubblica, così da dare applicazione al dettato costituzionale – articolo 32 – là dove afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
L’abbiamo fatto? Non tanto, non abbastanza. Dico “abbiamo”, tutti quanti, perché non voglio che le mie parole siano equivocate. Qui c’è Guido Bertolaso, che sono convinto stia facendo il possibile per migliorare la situazione nella nostra Regione, e così il prof. Locatelli, nel suo ruolo di Presidente del Consiglio Superiore di sanità. Del resto, è dal 2010 che l’incidenza della spesa sanitaria sul PIL è andata riducendosi, con la sola eccezione del periodo del Covid, per finire ben sotto la media dei Paesi OCSE; e diversi governi si sono succeduti.
È un fatto che la spesa pro-capite della Germania è il doppio di quella italiana. E che aumenta invece la spesa “out of pocket”, ciò che i cittadini pagano di tasca propria per curarsi, che tende però a ampliare le diseguaglianze; e che troppe persone rinunciano a curarsi.
Ecco perché l’impegno che dobbiamo tornare a condividere, nel giorno in cui ricordiamo le vittime della pandemia e rendiamo loro omaggio, è quello di rilanciare – tutti insieme, chiunque abbia responsabilità di governo – la sanità pubblica. Conta l’organizzazione, ma contano anche gli investimenti, perché non si possono fare le nozze coi fichi secchi.
Oggi e soprattutto domani, sapendo che le dinamiche della demografia, con l’aumento della popolazione anziana, tenderanno a moltiplicare le necessità di cura – non solo in Italia.
È l’intera Europa che viaggia verso una situazione di progressiva insostenibilità dei sistemi di protezione sociale che abbiamo edificato a partire dal Dopoguerra. Ed è l’Europa, io credo, che dovrebbe assumere questo tema come una priorità almeno paragonabile alla crisi climatica.
Concludo. C’è un motto dell’Associazione Nazionale Alpini, creato da Nardo Caprioli quando ne era il presidente, che mi capita spesso di richiamare. Dice: “Onoriamo i morti aiutando i vivi”. A me pare si adatti perfettamente anche alla giornata di oggi, anche alla commemorazione delle vittime del Covid. “Onoriamo i morti aiutando i vivi”. Onoreremo fino in fondo la memoria dei bergamaschi e degli italiani che sono caduti a causa della pandemia se e quando riaffermeremo, con i fatti, il valore insostituibile della salute pubblica e del Servizio Sanitario nazionale.
Vi ringrazio.