Cosa ha detto il Sindaco Gori alle celebrazioni del Giorno della Memoria 2020
Oggi a Bergamo si è celebrato il Giorno della Memoria 2020: vi proponiamo il discorso che il Sindaco Giorgio Gori ha tenuto alla commemorazione alla Rocca di Bergamo Alta.
Buongiorno a tutti. Saluto le autorità, i cittadini presenti, i ragazzi delle scuole e i loro insegnanti.
Il Giorno della Memoria ricorda la fine dell’Olocausto. Sul calendario è collocato il 27 gennaio, per legge della Repubblica Italiana, perché questa è la data del 1945 che vide i soldati dell’esercito sovietico entrare nel campo di Auschwitz. Ciò che si presentò ai loro occhi consentiva allora solo di immaginare gli orrori che si erano compiuti in quei luoghi.
A distanza di 75 anni, siamo convinti che mantenere viva la memoria di quelle atrocità sia un dovere, oltre che un monito utile per i nostri tempi, e che la cultura sia lo strumento per farlo. Per questo, oltre alle cerimonie istituzionali che ci vedranno coinvolti stamane, l’amministrazione comunale ha chiamato musei, biblioteche, associazioni e centri socio culturali della città a costruire un programma condiviso: e ognuno ha risposto con la sua sensibilità e i suoi mezzi, con i suoi linguaggi, condividendo la necessità di riflettere e capire, oltre che di ricordare. Ne è nato un palinsesto molto articolato, che ci accompagnerà fino a venerdì.
Auschwitz è il luogo in cui, dodicenne, è stata rinchiusa Liliana Segre; Auschwitz è il nome che più di tutti associamo all’orrore della Shoah, il nome della voragine della storia, dell’infinito dolore e della vergogna.
Di Auschwitz ha scritto alcuni giorni fa un amico, l’on. Emanuele Fiano, la cui intera famiglia fu sterminata in quel campo, con la sola eccezione del padre, che riuscì invece a uscirne vivo.
“C’era qualcosa di cui mio padre non parlava quando ero bambino – scrive Fiano. Io non sapevo e non dovevo sapere. Papà aveva buchi sulle gambe e un alluce mozzato. Un numero singolare marchiato sul braccio e spesso molte lacrime, ma non una parola che spiegasse quei segni e quel dolore. Per me bambino il suo numero sul braccio era un modo per ricordarsi il nuemro di telefono, le ferite sulle gambe erano la gambina malata, come la chiamava lui, e l’alluce era nato così, tutto ricurvo verso se stesso, come conchiglia chiusa segreta.
Auschwitz è stato per me, per lungo tempo, un non-luogo della memoria della nostra famiglia. Una parola sconosciuta e da onorare. Sacra, terrificante e ignota.
Il non-luogo della mia infanzia è diventato nel tempo, per molti nel mondo, ma non per tutti, il monumento immateriale all’abisso del 900. Che tutto aveva inghiottito di secoli di civiltà. Auschwitz. Il luogo dove la mia famiglia era stata cancellata, tutta meno mio padre. Il luogo dove non ho potuto vederli.
Non dovremmo mai idolatrare il ricordo, mai attribuire alla memoria un rito consolatorio, come se bastasse ricordare per essere. Non basterà, il ricordo si affievolirà. Scomparirà un giorno, inevitabilmente, anche l’ultimo testimone.
Ha scritto giustamente David Bidussa: “Quando rimarremo soli a raccontare l’orrore della Shoah, non basterà dire “Mai più”. Serviranno gli strumenti della storia (…) La memoria non è un accadimento, è un atto che si compie tra vivi ed è volto a legare tra loro individui al fine di costruire una coscienza pubblica”.
Ecco, a noi serve dire, a 75 anni dall’apertura del portone di Auschwitz, che di quella memoria e di quella pubblica coscienza abbiamo bisogno oggi. Non serve illudersi che la memoria, intesa come testimonianza in sé, possa vaccinarci. Con altre forme, con altra intensità, verso soggetti diversi, noi dobbiamo dire che la violenza devastante tra esseri umani, in ragione del loro essere, delle loro radici e tradizioni, non è stata debellata, non completamente.
Che non è stato sconfitto l’antisemitismo, che l’insanabile sete di nemici da additare per spiegare i propri dolori è ancora vivace, che la voglia di ricercare la difesa dietro un proprio confine invalicabile è molto di moda.
La stella di David tracciata sull’ingresso di un’abitazione a Mondovì è di pochi giorni fa: “Juden hier” – gli ebrei sono qui. Non servono altre parole per dirci che il passato non appartiene solo al passato e che la guardia va tenuta molto alta. Vi ringrazio.